Augusto Del Noce interprete di Rousseau

NOTE SU AUGUSTO DEL NOCE
INTERPRETE DI ROUSSEAU (R. Gatti)

A) Augusto Del Noce stilizza il concetto tipicamente moderno di “Rivoluzione”, in cui perviene a completa e coerente maturazione lo sviluppo del razionalismo ateistico, rilevando che con esso si deve intendere “una categoria ideale a cui si giunge attraverso un processo filosofico”. “Significa -precisa Del Noce- la liberazione, per via politica, dell’uomo dall’ “alienazione” a cui si trova costretto dagli ordini sociali sinora realizzati e che ha la sua radice soltanto nella struttura di tali ordini. Importa perciò la sostituzione della politica alla religione nella liberazione dell’uomo, dato che il male è conseguenza della società, diventata soggetto di imputabilità, e non di un peccato originale”. Al di là della varietà delle “forme rivoluzionarie”, l’elemento comune va individuato nella “correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale“. In questo contesto la Rivoluzione, “con la maiuscola e senza plurale, è quell’evento unico, doloroso come i travagli del parto […] che media il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà […]; che genera un avvenire in cui non ci sarà più nulla di simile alla vecchia storia; che, in ciò, è la risoluzione del mistero della storia”[1].

Interrogandosi sull’origine di questa idea di Rivoluzione, Del Noce la rinviene in un “particolare aspetto” del pensiero di Rousseau, la cui originalità non sarebbe da individuare solo e tanto nella negazione del peccato originale, ma nel fatto che tale negazione si accompagna -come mai era avvenuto in passato- “all’idea della possibilità di un ordine nuovo secondo natura”; mentre in precedenza, laddove si era avuto il rigetto del dogma della caduta originaria, questo si era registrato piuttosto in connessione con l'”idea delle religioni utili per mantenere l’ordine sociale esistente”[2].

Questo concetto di “Rivoluzione” conosce successivamente un essenziale incremento di significato e si va precisando nei suoi contorni fondamentali nella prima metà dell’800, periodo nel corso del quale “si accompagna con il giudizio storico sull’incompiutezza della rivoluzione francese”. In tale contesto il concetto in questione “si separa dall’idea di ritorno allo stato di natura e si collega con la precedente, già elaborata dall’illuminismo, idea di progresso, le filosofie della storia servendo come termine di mediazione”. Si ha quindi “la compiutezza dell’idea di Rivoluzione quando la ‘città ideale’ appare come risultato della storia, dopo l’hegelismo, in Marx appunto”. L’esordio e l’esito finale di tale processo di pensiero esemplificano emblematicamente come esso “vada da un’iniziale negazione del soprannaturale all’ateismo radicale”[3].

Nel precisare la posizione di Rousseau in questo itinerario Del Noce mette in rilievo gli elementi che accomunano l’autore del Contratto sociale con la philosophie illuministica e li rinviene nella identità di vedute rispetto alla “cultura del passato” e soprattutto riguardo alla “riabilitazione […] della natura umana”, riabilitazione che comporta “la critica della situazione dell’uomo considerata in funzione del peccato originale”. Muovendo da questi presupposti, Del Noce sostiene la tesi del “pelagianismo” di Rousseau e aggiunge che si tratta della “forma più radicale del pelagianismo”: essa consiste nella “affermazione di Dio, della libertà e dell’immortalità”, accompagnate però dalla “negazione del peccato e della grazia”. E’ entro tale orizzonte complessivo di riferimento che si delineano i contorni di quel “fatto di importanza estrema che è il sorgere […] dell’idea di Rivoluzione”. Infatti: “come spiegare -sostiene Del Noce- il male, data la bontà originaria dell’uomo, se non per riferimento a uno stato artificiale di società?”. In tale ambito viene da sé che alla “liberazione religiosa” finisce per sostituirsi la “liberazione politica”: “il problema del male viene trasposto dal piano psicologico e teologico a quello politico e sociologico: i dogmi della Caduta e della Redenzione vengono trasferiti sul piano dell’esperienza storica”[4].

Facendo riferimento al corso che Del Noce dedicò, nell’anno accademico 1978-’79, alla filosofia rousseauiana, è possibile accennare -naturalmente tenendo conto dei limiti impliciti nell’utilizzazione di un testo che costituisce semplicemente il sintetico resoconto delle lezioni concernenti l’argomento in oggetto- ad alcune linee di sviluppo della sua riflessione su Rousseau, le quali consentono di suggerire linee di approfondimento e anche di sottolineare aaspetti che l’interpretazione tracciata ne Il problema dell’ateismo non permette di cogliere pienamente.

Due punti mi pare che vadano, innanzitutto, posti in evidenza.

1) Il primo concerne l’analisi del concetto di “natura” rousseauiano. A questo proposito Del Noce -riprendendo l’esegesi che Henry Gouhier aveva proposto in un saggio del 1955[5]– precisa che, mentre prima di Roussea, il concetto di “religione naturale” esprimeva la tendenza alla conciliazione tra le diverse opzioni di fede attraverso l’elisione di quanto le divideva -e dunque sorgeva, dopo la tragica esperienza della guerre di religione, per “motivi politici”-, nel filosofo ginevrino il concetto di natura assume un senso diverso ed, anzi, opposto. Questo significato è analogo a quello della Grazia teologica: come la grazia soccorre la natura umana decaduta a causa del peccato di Adamo, così la “natura” cui fa riferimento Rousseau offre la possibilità di salvezza per “l’uomo storico”. In tal modo nel pensiero di Rousseau si introduce -osserva Del Noce, sulle tracce di Gouhier- una peculiare accezione della “caduta”, che deve essere tenuta distinta sia dalla visione greca del male sia dalla concezione cristiana del peccato. La visione greca può essere esemplificata facendo riferimento al Fedone platonico, in cui il male è ricondotto alla prigionia dell’anima nel corpo. L’anima peraltro può liberarsi con le proprie forze da questa condizione, senza un aiuto soprannaturale. Nella concezione cristiana è assente il dualismo platonico tra anima e corpo: l’origine del male rinvia al peccato originale, effetto di un cattivo uso della libertà. Entro tale concezione vale peraltro il principio che l’uomo, affetto dall’infirmitas conseguente al primo peccato, non può salvarsi da solo, senza il soccorso della Grazia divina.

La posizione di Rousseau si contraddistingue per il fatto che in essa manca la concezione dualistica di tipo platonico, ma anche per il rigetto della concezione cristiana. In questo caso la caduta non ha “carattere morale” ma “storico-fatalistico”: l’uomo, uscendo dallo “stato di natura” e dando origine alla storia, ha imboccato una “falsa via”[6].

Discende da qui la considerazione che l’ “opposizione fondamentale” presente nel pensiero rousseauiano è quella tra “natura” e “storia”, che si deve intendere -precisa Del Noce- in rapporto alla contrapposizione che il pensiero religioso e la teologia del ‘500 e del ‘600 pongono tra grazia e natura. E’ legittimo paragonare la funzione che, per Rousseau, svolge la “natura” nei confronti dell’ “uomo storico” a quella della grazia in relazione alla natura decaduta[7]. Viene, in tale prospettiva, a delinearsi il compito fondamentale della politica, che è quello di “riportare la natura nella società”, cioè di “fare una società secondo natura”. Nasce da qui anche la tesi del carattere necessario della Rivoluzione, la quale costituisce la rottura che consente di iniziare una “nuova storia”, conforme alla “natura”; e si origina altresì l’idea dell’ “impegno religioso” della politica, il quale culmina nella “sostituzione della politica alla religione nella liberazione dell’uomo”. Robespierre è colui nel quale trova la sua espressione emblematica questa posizione sul problema del male e sulla funzione della politica nei confronti di esso[8].

2) L’altro punto riguarda alcune precisazioni sul significato della “caduta” nel pensiero di Rousseau. Come Del Noce fa osservare, Rousseau ha “una sua nozione di peccato”: quest’ultimo consisterebbe -come si è accennato- nel fatto che l’uomo, coinvolto nella vicenda storica dopo l’uscita dalla condizione originaria, ha scelto una “via sbagliata”: non una colpa quindi sta all’origine dei mali dell’umanità, ma un errore, come tale riparabile. Sebbene venga smorzato l’ “aspetto morale” della caduta, questo atto ha “conseguenze morali”, dato che l’errore di partenza ha fatto sì che prendesse forma un processo di civilizzazione e di socializzazione tale da condurre progressivamente all’offuscamento della bontà originaria; è ciò che Rousseau indica attraverso la nota simbologia della statua di Glauco contenuta nel Discorso sulla disuguaglianza[9]. Collocato in questa ottica, il pensiero di Rousseau appare a del Noce come l’esito estremo, ma in sé quanto mai indicativo e significativo, della “crisi interna della Controriforma”, crisi che conduce alla “confluenza fra la teologia gesuitica e Pelagio”, la quale trova un punto di resistenza solo nel giansenismo di Port-Royal. Riemerge qui la filiazione pelagiana della filosofia di Rousseau. Questi sostiene infatti che l’ essere umano è in grado di salvarsi autonomamente ricorrendo al suo “libero arbitrio”. La società ha certamente rappresentato uno snaturamento dell’uomo; egli tuttavia può tornare alla situazione originaria o, meglio, edificare una forma di convivenza che sia conforme alla “natura”. Emerge l’inversione che in Rousseau si produce rispetto a Lutero e che Del Noce sintetizza in una formula: “pelagianesimo che rompe col cristianesimo”. Come egli osserva, mentre il conflitto tra Pelagio ed Agostino si svolge ancora “all’interno del cristianesimo”, nel filosofo ginevrino si ha uno “sviluppo estremo del pelagianesimo che arriva alla rottura col cristianesimo”[10].

B) D’altra parte un’interpretazione del pensiero di Rousseau che ne evidenzi unicamente l’apporto in direzione dell’origine della “democrazia totalitaria” non riesce e rendere conto per intero del signficato e delle implicazioni della riflessione del filosofo ginevrino, la quale si svolge, come evidenzia Del Noce, nel segno di una sostanziale “ambiguità”. Non si può infatti sottovalutare o considerare solo come un aspetto secondario e marginale quella parte della filosofia rousseauiana che è rivolta contro l’irreligione illuministica e che si sviluppa in direzione di una apertura al trascendente, apertura tale da evidenziare una irriducibile sporgenza di tale filosofia rispetto alla linea immanentistica che culmina nel messianismo rivoluzionario. A tal proposito Del Noce -puntando l’attenzione sulla Professione di fede del vicario savoiardo– accenna, ne Il problema dell’ateismo, ad un possibile accostamento tra Descartes e Rousseau: “E’ nota la tesi che presenta il pensiero cartesiano come una diga contro l’irreligione. Se consideriamo il pensiero di Rousseau nell’angolo della Profession de foi, esso ci appare come una seconda diga, costruita contro gli stessi avversari, dopo che quella dei tre grandi del pensiero religioso francese del ‘600 Cartesio, Pascal, Malebranche, appariva erosa; forma di pensiero religioso che si manifesta dopo accettate le critiche che l’illuminismo aveva mosso a quella prima direzione, in quanto metafisica e in quanto connessa con orientamenti teologici”. Del Noce mette l’accento sulla “simmetria” tra i due momenti dell’opposizione all’irreligione rappresentati da Descartes e da Rousseau: “come Cartesio aveva rovesciato il dubbio dei libertini, così Rousseau rovescia il senso di quel richiamo alla natura che era stato proprio dei philosophes; mentre questi avevavo pensato a un appello contro gli errori dell’infanzia, contro gli scrupoli della morale sociale […], per Rousseau la voce della natura si confonde con un istinto divino che opera la distinzione infallibile del bene e del male, che insegna che la giustizia è immutabile ed eterna, che tutto non finisce con la vita, e che l’immortalità dell’anima, ristabilendo l’ordine, giustifica la Provvidenza”[11].

Anche in questo caso il riferimento al corso universitario già ricordato può contribuire ad una migliore comprensione di alcuni punti del pensiero delnociano in relazione al problema della religione di Rousseau.

1) Si tratta innanzitutto, per Del Noce, di un teismo che si aggancia alla religione riformata quale si era sviluppata tra la fine del ‘600 e la prima metà del ‘700, rompendo con alcuni temi essenziali connessi alla lettera e allo spirito originari della Riforma e mantenendo il riferimento alla “trascendenza”, pur nell’ormai consumata eclissi della dimensione del “soprannaturale”, la fede nel quale, in un’ ottica cristiana, è associata ai dogmi dell’incarnazione, della redenzione, dell’unità e trinità di Dio[12]). Elementi costitutivi di tale teismo sono: il primato dell’esame razionale delle Scritture e dei dogmi, il quale comporta che ogni dogma che ecceda la comprensione razionale non può essere accettato; l’enfasi posta sulla funzione morale della religione e la conseguente convinzione che debba essere considerato secondario e accessorio ogni dogma che non riguardi la promozione della vita virtuosa; la “riabilitazione della natura”, che perviene a far giudicare le facoltà naturali (“ragione” e “coscienza”) come unico metro di misura per il giudizio su ciò che pretende alla qualifica di soprannaturale. Viene qui proposta, nello sviluppo della riflessione delnociana, una collocazione storica del pensiero religioso di Rousseau: questi, muovendo dalla critica ai philosophes, si presenta come il rappresentante autentico dello spirito della Riforma. In sostanza “un cristianesimo che si libera del soprannaturale” incrocia una posizione philosophique dissidente “che incontra la religione”[13]. Tale collocazione viene ulteriormente precisata là dove Del Noce osserva che in Rousseau si può cogliere il congiungimento del “naturalismo di origine cattolico-molinista” e del “libero esame di origine protestante-razionalistica”[14].

2) Si profila quindi una rottura, nello stesso tempo, con le religioni storiche e con l’irreligione, una rottura nella quale però si annidano gli elementi di una ambiguità che segna da capo e a fondo la filosofia rousseauiana. Infatti, da un lato si registra l’antitesi alla scientismo materialistico, ma senza che ciò comporti un recupero del pensiero religioso del ‘600: pur rigettando e criticando a fondo l’antireligione dei philosophes, Rousseau fa suo il loro atteggiamento di radicale chiusura nei confronti delle religioni storiche.

Questa ambiguità ha fatto sì che, anche dal punto di vista della ricostruzione storica, si sia potuto vedere, con plausibili ragioni, in Rousseau talvolta un esponente tipico dell’illuminismo e altre volte un pre-romantico a tutti gli effetti. Soprattutto ha creato le condizioni perché che si dipartissero dalla sua filosofia politica e religiosa linee opposte, come quella che sfocia nel Terrore giacobino e nella Restaurazione: Robespierre e Chateaubriand non hanno avuto difficoltà ad indicare Rousseau come progenitore o comunque ispiratore di aspetti essenziali del loro pensiero e della loro azione. C’è quindi una “continuazione di Rousseau” sia nel giacobinismo che nello spiritualismo francese[15].

3) Il punto più importante attiene però alla considerazione che, al di là delle tensioni interne che caratterizzano la posizione religiosa di Rousseau, il rinvio alla religione rimane comunque l’orizzonte entro il quale si inscrive la sua filosofia politica e questa religione -espressa emblematicamente dal vicario savoiardo- evidenzia un’eccedenza irriducibile rispetto alla politica, in chiara antitesi rispetto al paradigma tipico del messianismo rivoluzionario. Rilievo particolare va dato, in questo caso, all’affermazione delnociana secondo cui la “religione naturale” di Rousseau, benché “naturale”, è “pur sempre religione” e non semplicemente una riduzione dell’elemento religioso a strumento della ragion di stato[16]. Precisa Del Noce che il dato essenziale di cui è necessario tener conto quando si affronta il problema della religione di Rousseau consiste nel fatto che nel filosofo ginevrino non è l’elemento “politico”, ma quello “religioso” ad essere in primo piano. Nell’autore della Professione di fede del vicario savoiardo ci troviamo di fronte ad una “religione naturale” che “non cessa di essere religione, per esser naturale” e il cui organo fondamentale è la “coscienza”[17].

Quindi, se si sta a questa interpretazione, non si può affermare che c’è in Rousseau un “primato della politica”, essendo questo primato invece della religione, nella forma di religione della natura e del cuore[18]. A differenza di quanto accade nel “pensiero rivoluzionario”, Rousseau esclude il “soprannaturale”, ma non la “trascendenza”[19]; ed è il riferimento alla trascendenza che, come mostra chiaramente l’andamento dell’Emilio nel quarto e nel quinto libro, introduce e fonda la riflessione sulla “società ben ordinata”[20].

Il punto più significativo ai fini della comprensione di questa linea interpretativa è nell’affermazione delnociana secondo cui, come per Vico, anche per Rousseau non è possibile l’esistenza di uno stato senza religione; ad accomunare i due filosofi c’è l’opposizione all’idea della “città degli atei” sostenuta, com’è noto, da Bayle. La tesi che funge, in maniera decisiva, da elemento discriminante rispetto alla “religione secolare” è quella che non si dà stato senza “moralità”; ma, per l’autore dell’Emilio, la “moralità è inscindibile dalla religione”. Lo stesso “legislatore” -snodo essenziale per la costituzione del “corps politique”- “non crea, nè approfitta della religione, ma la presuppone”. Nel capitolo dedicato alla “religione civile” Rousseau scrive che “allo Stato importa molto che ciascun cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religione non interessano né lo Stato né i suoi membri se non nella misura in cui si riferiscono alla morale e ai doveri che chi che la professa è tenuto ad assolvere verso gli altri”[21]. Vi è pertanto -osserva Del Noce- un legame fra “religione e dovere” e quindi, “mediatamente”, tra “Stato e religione”. L’aspetto fondamentale è comunque che la religione non viene risolta nella politica; è piuttosto quest’ultima che non potrebbe adeguatamente essere fondata senza il riferimento alla sfera religiosa, nella quale -come Rousseau più volte ricorda- va ricercata la base ultima della “virtù”[22]. Anche per questa via si torna all’idea dell’eccedenza della religione rispetto alla politica e della priorità logica e assiologica della prima sulla seconda.

Nel ricordare le due interpretazioni dominanti della filosofia politica rousseauiana -quella “democratico-liberale” e quella “democratico-totalitaria”-, Del Noce osserva che i sostenitori di quest’ultima enfatizzano il rapporto tra Rousseau e il giacobinismo e pongono un’equivalenza totale tra la “religione civile” esposta nel cap. 8 del libro IV del Contratto sociale e la “religione secolare”. Il fatto è -osserva Del Noce- che tale interpretazione, per i motivi accennati, non è accettabile o, almeno, non lo è se presentata nel modo in cui la propongono i suoi sostenitori, ai quali sfugge che la riflessione rousseauiana scorre non su un solo piano, ma sue due piani, irriducibili l’uno all’altro[23].

4) Se le cose stanno così, si impone evidentemente una puntualizzazione relativa al rapporto tra Rousseau e Marx; e l’elemento essenziale è, in questo caso, la non sosteniblità della tesi secondo la quale il primo potrebbe essere ridotto a “precursore” del secondo[24]: non c’è modo, osserva Del Noce, per stabilire un passaggio, nè “storico” nè “dialettico” tra i due[25]. A dividerli rimane, come Del Noce evidenzia, quello che egli stesso definisce il “platonismo” del filosofo francese, non beninteso come “innatismo […] delle idee” -dato l’evidente impianto anti-innatistico della gnoseologia rousseauiana-ma come “innatismo” della “coscienza”, che consente di accedere all’amore del buono e del bello morale[26]. Osserva Del Noce che la differenza fondamentale tra Rousseau e Marx sta nel fatto che il secondo rinuncia “ad ogni valore etico nella fondazione della politica”. Infatti la rivoluzione non ha un fondamento etico, ma subentra come effetto dello sviluppo impersonale delle leggi della storia; ogni riferimento al valore come base dell’azione rivoluzionaria (base esterna e quindi presupposta rispetto alla prassi rivoluzionaria stessa) sarebbe bollato da un marxista coerente come astratto e illusorio moralismo[27].

Qui la presa di distanza dalla tesi di Talmon, che considera, com’è noto, Rousseau il progenitore più importante della “democrazia totalitaria”[28], storicamente incarnatasi nei regimi comunisti, è quanto mai netta ed esplicita, nella misura in cui Del Noce asserisce che, riguardo a questo punto cruciale, tra Rousseau e Marx c’è “discontinuità completa”[29].

5) L’idea del fondamento etico della politica e l’attribuzione ad essa di precise finalità morali segnano, d’altra parte, anche una linea di demarcazione molto netta rispetto al machiavellismo. In questo caso Del Noce considera estremamente significativa l’interpretazione crociana di Rousseau, la quale si basa proprio sull’espunzione dell’autore del Contratto sociale dall’ambito degli scrittori autenticamente politici appunto in ragione di quello che Croce considera il moralismo intellettualistico e declamatorio del filosofo ginevrino. Nella misura in cui Rousseau deve venir considerato come un autore che rimette in discussione e finisce per negare recisamente l’autonomia della politica dalla morale, egli -osserva Croce- va situato al di fuori di quella linea lungo la quale si può seguire, a partire da Machiavelli, il processo che conduce all’emergere del concetto moderno di politica come attività umana dotata di una propria peculiare legalità e riducibile alla logica dell’utile e della forza[30], che finisce poi per essere inevitabilmente la logica della ragion di Stato. Croce coglie nel segno per quello che riguarda l’impostazione della filosofia politica rousseauiana e nulla forse meglio della sua interpretazione -fa intendere Del Noce- consente di misurare l’eterogeneità delle idee di Rousseau rispetto alla tradizione del machiavellismo. Certamente, nell’ottica crociana, l’inclusione tra gli scrittori politici di Machiavelli comporta, per necessità logica, l’esclusione di Rousseau, che in questo caso può essere senz’altro letto come autore che ha teorizzato non solo l’intimo nesso tra religione, morale e politica, ma anche, muovendo da questo legame, l’ “insufficienza della politica”, che evidentemente deriva dal non poter avere la politica una fondazione in se stessa ma nel doverla ricercare nella sfera etico-religiosa, a partire dalla quale è possibile anche misurare i limiti della politica[31].

C) La cifra che permette di leggere unitariamente la filosofia rousseauiana è quindi quella dell’ambiguità. E quest’ultima non riguarda solo il fatto che è possibile individuare, per così dire, due anime all’interno del pensiero rousseauiano -da un lato l’anima philosophique (che condivide con l’illuminismo la condanna radicale della cultura tradizionale e la riabilitazione della natura umana in senso apertamente anti-cristiano) e, dall’altro, l’anima religiosa, sia pure tesa ad attestare la validità di una religione puramente naturale e nella quale la risonanza interna del sentimento, autonomo quanto alla sua natura e alle sue modalità di manifestazione, prende il posto della fede intesa nell’ottica cristiana, per la quale la fede risulta inscindibile dall’illuminazione della Grazia. L’ambiguità finisce per investire, in realtà, la religione stessa di Rousseau nella sua interna configurazione.

Per un verso, infatti, questi riconosce la necessità della religione per la politica -di una religione considerata come fondamento della società giusta e non come mero strumento in mano al sovrano per ottenere l’obbedienza dei semplici, secondo l’idea che ancora contraddistingue, ad esempio, la posizione di Voltaire. Ma, per altro verso, arriva a riconoscere che l’unica vera religione, quella del vicario, non sembra idonea a garantire la stabilità dell’artificio politico. Ciò, innanzitutto, perché si tratta di una religione di tipo universalistico -e quindi in tensione con l’imperativo dell’ “amore per la patria”, inteso, come lo intende Rousseau fin dall’articolo Economia politica, come amore esclusivo e tale da creare una rigida contrapposizione con chi alla patria non appartiene[32]. Poi perché, conformemente alla sua natura, è una religione che professa “l’indifferenza per il risultato”[33] e guarda invece alla coerenza del comportamento con il credo professato, cioè alla vita virtuosa, mentre la politica -come lo stesso Rousseau sottolinea negli scritti sull’abate di Saint-Pierre e, in particolare, nel Giudizio sul progetto di pace perpetua[34]– chiede realismo, a prezzo altrimenti di rimanere inattiva contemplazione di irrealizzabili chimere, ciò che appunto è accaduto all’ ingenuo Saint-Pierre, “predicatore” e non “politico”[35].

Dunque, il momento machiavelliano riaffiora e introduce una fessura di portata non certo irrilevante nella continuità tra religione e politica, continuità che d’altra parte è un’esigenza cui il filosofo ginevrino non intende rinunciare. Come osserva Del Noce, Rousseau vuol essere un riformatore, sia religioso che civile. Se ne dovrebbe dedurre che nella società del Contratto “riforma religiosa” e “riforma politica” debbano coincidere e che la “religione dell’uomo” diventi anche quella del “cittadino”. In realtà, nel Contratto emerge uno sconcertante dualismo: la “religione politica (del cittadino)” non coincide con la “religione intima”[36]. Il significato della posizione delnociana relativamente a questo punto cruciale si può esprimere osservando che, in Rousseau, da un lato la religione è necessaria al buon ordine politico, dall’altro la religione più autentica non sembra rispondere alle esigenze della società. Il dualismo che si viene a configurare tra queste due religioni rende impossibile trattare Rousseau come un teorico della democrazia totalitaria, ma crea pure dei “problemi gravi”: si afferma, contemporaneamente, la necessità della religione per la politica e l’impossibilità che “la più perfetta delle religioni” possa veramente riuscire a svolgere la funzione di creare la coesione spirituale della società[37].

L’introduzione della “religione civile” si spiega, a parere di Del Noce, proprio in quanto quest’ultima è chiamata ad assolvere la funzione che la “religione naturale” non riesce a svolgere. E la “religione civile” è una religione politica nella sua più intima essenza, nella misura in cui è il “sovrano” stesso a fissarne gli articoli, conservando sempre la facoltà di escludere dalla cittadinanza coloro che non ne sottoscrivono i dogmi (esistenza della divinità, vita futura, felicità dei giusti e castigo dei malvagi, “santità” del contratto sociale e delle leggi)[38]. Quindi è legittimo affermare che “ci sono due Rousseau: quello della Professione di fede e quello della religione civile”[39]. O, per dirlo in altri termini, esiste in Rousseau un “momento religioso” che è logicamente scisso sia dal “momento rivoluzionario” che da quello “totalitario”; ma c’è anche un Rousseau che si muove lungo una via che conduce se non al “totalitarismo in senso rigoroso”, quanto meno al “pensiero rivoluzionario”, in una prospettiva entro la quale il totalitarismo può finire per essere lo sbocco finale[40]. Il germe del “totalitarismo” sta nell’idea di “una politica che prende il posto della religione”[41]. Nel filosofo francese, in sostanza, si perviene alla fine ad una frattura tra la “religione dell’uomo” e la “religione del cittadino” e nello spazio che così si crea si introduce la componente potenzialmente totalitaria.

La conclusione della riflessione delnociana su questo punto consiste nella tesi secondo cui si possono individuare in Rousseau “due religioni”. Collocandosi nell’orizzonte della Professione di fede, ci si trova di fronte un Rousseau il quale afferma che la sua religione è la pura religione evangelica, liberata dalle incrostazioni della tradizione e della superstizione; se si adotta tale punto di vista Rousseau ci si presenta come “ultimo anello” del processo iniziato con la Riforma, il cui intento dichiarato è di riportare gli uomini al cristianesimo originario. Collocandosi invece nell’orizzonte della professione di fede civile, ci si trova di fronte ad una “religione politica”, ad una sorta di “teologia politica”[42], che introduce una frattura radicale con il cattolicesimo, ma che “di fatto non può organizzarsi se non rompendo con tutte le religioni cristiane”[43]. D’altra parte, Del Noce non accetta l’idea che i due diversi itinerari prefigurati nel pensiero rousseauiano possano essere spiegati facendo riferimento ad uno sviluppo progressivo della riflessione del filosofo ginevrino, se non altro perché -come egli stesso osserva- vi è una sostanziale contemporaneità cronologica tra la stesura della Professione di fede e quella del Contratto sociale[44]. In realtà si tratta di una “contraddizione” cui Rousseau “è costretto” dalla forma e dall’andamento del suo pensiero[45]. Ciò perché -se interpreto bene questo passaggio, semplicemente accennato nei testi cui si è fatto fin qui riferimento-, pur rimanendo nel filosofo ginevrino una forte influenza del momento religioso e un deciso e non equivoco accento sul tema della trascendenza -vista come dimensione che sola consente una fondazione adeguata dell’etica e, quindi, della politica e del diritto-, ciò nondimeno, muovendo dal rigetto del dogma cristiano del peccato originale, Rousseau priva la religione di una sua componente essenziale, cioè dell’ aspetto legato al riconoscimento della costitutiva miseria umana originata dalla caduta; in tal modo finisce per non incontrare alcun ostacolo nell’attribuire la salvezza ai soli poteri umani e alla politica in particolare.

L’ambiguità del pensiero rousseauiano -come si è già accennato- ha fatto sì che da esso si siano potute dipartire due linee di sviluppo antitetiche, ognuna delle quali ha, con qualche buon motivo, potuto rivendicare la sua coerenza con il lascito dell’autore del Contratto sociale e dell’Emilio: il giacobinismo, da un lato, e la rinascita spiritualistica nella Francia dell’800, dall’altro. In relazione a quest’ultima Del Noce rileva che è possibile tracciare una “catena Rousseau-Maine de Biran-Lequier”, che rinvia, mutatis mutandis, a quella “Cartesio-Pascal-Malebranche”. Proprio a proposito di Maine de Biran, Del Noce osserva che mostrare il rapporto esistente tra questi e Rousseau può essere utile per mostrare la debolezza della tesi del “pascalismo di Biran” e, in generale, dello spiritualismo francese ottocentesco, il quale condivide con Rousseau alcuni degli elementi essenziali che fanno del pensiero del ginevrino un pensiero ambiguo e dunque impediscono ad esso -e alle “filosofie del teismo postulatorio” cui ha dato origine- di essere assunti come risposta efficace contro l’ateismo moderno nella sua forma di ateismo che sfocia nella sostituzione della religione con la politica[46].

D) Vorrei, in quest’ultimo punto, cercare di sviluppare alcune osservazioni suggerite dall’interpretazione delnociana del pensiero politico e religioso di Rousseau, cercando in particolare di esplorare le possibilità implicate nella definizione che Del Noce stesso dà del filosofo francese come di un “Pascal naturalizzato e pelagianizzato”[47].

Del Noce aderisce in toto alla tesi che vede nel filosofo ginevrino il teorico della bontà naturale e il sostenitore, di conseguenza, del carattere esterno del male. Non c’è dubbio, in effetti, che qui si debba individuare un elemento cruciale della filosofia rousseauiana. Ed è lo stesso Rousseau, nella lettera a Christophe de Beaumont, ad esplicitare sinteticamente la sua teoria dell’uomo buono per natura[48], presentandola come il vero e proprio elemento di autentica e rivoluzionaria novità contenuto nel “grande sistema” già annunciato nella Prefazione alla seconda risposta a Bordes a proposito del Discorso sulle scienze e sulle arti[49].

Eppure sarebbe forse limitativo affermare che questa è l’unica soluzione proposta da Rousseau a proposito del problema dell’origine del male. Anche sull’argomento in questione si registra una profonda ambiguità, che approfondisce il senso e le implicazioni di quella individuata da Del Noce.

Accanto al Rousseau che -riformulando in modo radicale il problema della teodicea- riporta il male alla “società” come a sua causa[50] c’è il Rousseau che lascia cogliere una sporgenza rispetto a questa riduzione del male alle dinamiche storico-sociali e per il quale, invece, la società viene a configurarsi non tanto come una causa quanto come un’occasione del male. In tale contesto la radice del male è piuttosto da rintracciare nell’interiorità di un soggetto umano i cui caratteri sono stilizzati dal filosofo ginevrino ponendo l’accento sulla costitutiva ed ineliminabile tensione tra la dimensione physique, da un lato, e la dimensione métaphysique e morale, dall’altro, e che risulta altresì dotato di una “libertà” della quale sovente “abusa”, preferendo l’ “être sensitif” all’ “être intelligent”. E’ questo, notoriamente, uno dei temi centrali della Professione di fede, in cui, come già aveva osservato Masson -sia nel suo studio classico sulla religione di Rousseau sia nella sua edizione critica della Professione-, riemerge un residuo cristiano nella trama della speculazione rousseauiana, residuo che si concretizza appunto nella riconduzione dell’origine del male alle dinamiche dell’interiorità e che rinvia fondamentalmente alla dialettica della “libertà” alle prese con i richiami contrastanti dell’ “anima” e del “corpo”[51]. Che i rapporti sociali costituiscano un’insidia e una sorta di acceleratore delle tentazioni cui l’uomo è esposto a partire da questo conflitto interiore è perfettamente comprensibile, ma che questo conflitto e l’atto della scelta che deve in un modo o nell’altro risolverlo rinviino ad un livello di profondità e ad una dimensione in sé irriducibili al contesto storico, sociale, ambientale, è altrettanto innegabile, almeno stando all’antropologia del vicario savoiardo. Non potendo evidentemente in questa sede approfondire il tema in modo particolareggiato, mi limito a rinviare a tre citazioni in cui il nesso tra dualismo e libertà, come nucleo intorno al quale si costituisce l’interpretazione del problema del male nella Professione, emerge con particolare evidenza:

– “En méditant sur la nature de l’homme j’y crus découvrir deux principes distincts, dont l’un l’élevoit à l’étude des vérités éternelles, à l’amour de la justice et du beau moral, aux régions du monde intellectuel, dont la contemplation fait les délices du sage, et dont l’autre le ramenoit bassement en lui-même, l’asservissoit à l’empire des sens […]. En me sentant entrainé, combattu par ces deux mouvemens contraires, je me disois: non, l’homme n’est point un; je veux et je ne veux pas, je me sens à la fois esclave et libre; je vois le bien, je l’aime, et je fais le mal: je suis actif quand j’écoute la raison, passif quand mes passions m’entrainent, et mon pire tourment, quand je succombe, est de sentir que j’ai pu resister”[52].

-“Je ne connois la volonté que par le sentiment de la mienne, et l’entendement ne m’est pas mieux connu. Quand on me demande quelle est la cause qui détermine ma volonté je demande à mon tour quelle est la cause qui détermine mon jugement: car il est clair que ces deux causes n’en font qu’une, et si l’on comprend bien que l’homme est actif dans ses jugemens, que son entendement n’est que le pouvoir de comparer et de juger, on verra que sa liberté n’est qu’un pouvoir semblable ou dérivé de celui-là: il choisit le bon comme il a jugé le vrai, s’il juge faux il choisit mal […]. Sans doute je ne suis pas libre de ne vouloir mon propre bien, je ne suis pas libre de vouloir mon mal; mais ma liberté consiste en cela même, que je ne puis vouloir que ce qui m’est convenable ou que j’estime tel, sans que rien d’étranger à moi me détermine […]. Le principe de toute action est dans la volonté d’un être libre, on ne sauroit remonter au delà”[53].

-“Pourquoi mon âme est-elle soumise à mes sens et enchainée à ce corps qui l’asservit et la gêne? Je n’en sais rien; suis-je entré dans les décrets de Dieu? Mais je puis sans témérité former de modestes conjectures. Je me dis: si l’esprit de l’homme fut resté libre et pur, quel mérite auroit-il d’aimer et suivre l’ordre qu’il verroit établi et qu’il n’auroit nul intérest à troubler? Il seroit heureux, il est vrai; mais il manqueroit à son bonheur le degré le plus sublime, la gloire de la vertu et le bon témoignage de soi […]. Unie à un corps mortel par des liens non moins puissans qu’incompréhensibles, le soin de la conservation de ce corps excite l’âme à raporter tout à lui, et lui donne un intérest contraire à l’ordre général qu’elle est pourtant capable de voir et d’aimer; c’est alors que le bon usage de sa liberté devient à la fois le merite et la récompense, et qu’elle se prépare un bonheur inaltérable”[54].

L’antropologia filosofica cui questi passi rinviano può essere raccolta attorno ad alcuni punti essenziali. L’uomo, essere non “semplice” ma caratterizzato da “due sostanze”[55], è contraddistinto dalla “libertà”, la quale designa la capacità di autodeterminazione razionale e la facoltà di scegliere sottraendosi al mero impulso “fisico”; la perversione di questa libertà si ha quando la “ragione” e la “coscienza” cedono alle “passioni”. Questo pervertimento può essere spiegato facendo riferimento alla “debolezza” dell’essere umano come essere finito[56], ma la “faiblesse” non giustifica tale perversione[57], che è comunque sempre il risultato di una scelta libera, di un atto cioè che si contraddistingue per la sua radicale irriducibilità ad ogni motivo esterno che possa comunque determinarla. In tale contesto il male si origina dalla dialettica della libertà: della natura di quest’ultima fa parte, infatti, la possibilità di negarsi in quanto tale e ciò avviene quando il soggetto soccombe, pur potendo resistere, alla pressione delle passioni, annullandosi come essere autonomo e scegliendo la “schiavitù” degli impulsi. Il proprium dell’essere umano sta che nel fatto che può volontariamente determinarsi per la non-libertà. Questa dinamica interiore trova, come si è accennato, nella Professione di fede la sua spiegazione più sistematica. L’uomo è composto da “due sostanze”, “materia” e “spirito”[58]; l’unità sta nella sintesi armonica della dimensione physique e métaphysique, ma questa sintesi, in cui consistono la perfezione e il telos dell’uomo, rappresenta un obiettivo da perseguire, una faticosa conquista in cui il ruolo centrale è giocato dalla “volontà”. Né l’homme naturel, che, alla stessa stregua dell’ animale, vive fissato nell’immota condizione dell’esistenza puramente fisico-materiale, né il puro spirito conoscono il dramma della lacerazione che contraddistingue la vita del soggetto morale ed entrambi ignorano gli ardui sforzi che sono necessari a quest’ultimo per acquisire la propria perfezione etico-spirituale[59]. La riflessione sul male si delinea interamente, nell’Emilio e in particolare nella Professione di fede, sullo sfondo di questa antropologia.

E’ noto altresì che Rousseau ha con insistenza messo l’accento sulla quasi sovrumana difficoltà che implica la realizzazione della “virtù”, effetto di una dura “lotta” nella quale la maggior parte degli individui -ivi compreso, per sua stessa ammissione, Jean-Jacques[60]– è destinata a soccombere[61]. L’esperienza morale, quindi, si prospetta come contraddistinta da una sostanziale intonazione pessimistica e sullo sfondo di essa si proietta costantemente il rischio dello scacco[62]. Non certo il perfettismo, ma piuttosto l’accento posto sull’esperienza del limite sembra quindi segnare la posizione rousseauiana nella prospettiva fin qui brevemente delineata: “gli esseri perfetti non ci sono in natura”[63] e bisogna trarre da questa considerazione tutte le conseguenze che ne derivano, sia in sede antropologico-filosofica che etico-politica.

Se si muove da qui è forse possibile riprendere la tesi delnociana di Rousseau come “Pascal naturalizzato e pelagianizzato” e proporne un’interpretazione almeno in parte diversa di quella suggerita dal Del Noce, che mi sembra possa contribuire non solo a problematizzare l’esegesi delnociana a proposito del problema del male in Rousseau, ma anche a cogliere alcune possibilità di sviluppo individuabili in essa. Com’è noto, Rousseau ha svolto una critica radicale del dogma del peccato originale e di quelle che, secondo la teologia cristiana, dovrebbero essere le sue conseguenze[64]; malgrado ciò, non c’è dubbio che, quando illustra le manifestazioni della “faiblesse” -intesa come mancanza di forza per obbedire alla legge morale, in un’accezione che anche Kant riprenderà nel suo concetto di Gebrechlichkeit[65]– riproduce con sorprendente fedeltà i caratteri dell’infirmitas che nella prospettiva cristiana si introduce nell’uomo come effetto del peccato di Adamo. Si può dire che la sua è una visione dell’uomo dalla quale è espunta l’idea del peccato originale, senza che tale espunzione conduca però al rifiuto dell’immagine della condizione umana che il cristiano vede nascere dalla caduta.

Ma un altro punto ancora può essere sottolineato. Al di là del rifiuto del dogma del peccato originale, apertamente manifestato nella lettera all’arcivescovo di Beaumont, resta il fatto che, nel contesto dell’interpretazione sin qui proposta, la radice del male va rinvenuta proprio in un atto di volontà che si dà in tutta la sua irriducibile radicalità, esattamente come avviene in quel “retore Agostino” dal quale Rousseau è probabilmente meno lontano, almeno relativamente a questo punto, di quanto alcune sue affermazioni potrebbero far credere[66]. La chiusura nei confronti della dimensione dogmatica della “dottrina del peccato originale” non dovrebbe oscurare il dato che uno degli aspetti essenziali di questa dottrina si ritrova anche nel pensiero rousseauiano: il male, una volta rigettata l’ipotesi manichea[67], nasce dalla scelta dell’uomo che rifiuta l’ordine stabilito da Dio, sia per quanto riguarda l’armonia interna del soggetto, sia per quanto concerne il corretto equilibrio nelle relazioni sociali, sia infine per quanto attiene alla collocazione dell’essere umano nell’economia complessiva dell’universo, elementi inscindibili l’uno dall’altro[68]. La decisione del soggetto umano di sottrarsi all’ordine di cui Dio è artefice e garante costituisce, anche nel filosofo ginevrino, la scaturigine del male: si tratta di uno dei nuclei tematici principali della Professione di fede e, in generale, della religione di Rousseau. E ciò consente di affermare che nel filosofo ginevrino non è assente l’idea della “rivolta” dell’uomo “contro Dio”[69], intesa come momento centrale della dinamica del male.

Certo Rousseau rifiuta con la più grande energia il principio dogmatico di una corruzione della natura umana che discenderebbe dal primo peccato; qui è il vero, grande punto discriminante rispetto alla teologia cristiana del peccato. L’idea di un atto libero di un soggetto che ricada su altri soggetti coinvolgendoli nella colpa che da quell’atto si origina è totalmente estranea a Rousseau, nella misura in cui questi considera l’accettazione di una tale idea come incompatibile con la tesi dell’autonomia e della responsabilità morali dell’individuo. D’altra parte però, come si è già fatto osservare, la sua concezione dell’uomo non è lontana da quella tipica del cristianesimo, specie in riferimento alla coppia concettuale libertàfragilità su cui si è sin qui richiamata l’attenzione. E’ come se Rousseau, almeno in una parte del suo pensiero, riprendesse, pur in forma originale e peculiare, l’immagine della condizione umana che gli viene da una tradizione religiosa in cui un posto di rilievo spetta, tra gli altri, certamente ad un autore come Pascal, rigettando però il principio attraverso il quale tale condizione -caratterizzata dalla mortalitas, dalla ignorantia, dalla concupiscentia– viene interpretata nel contesto della tradizione richiamata. Cosicché la fragilità e una libertà che si distorce sistematicamente verso il male, provocando “injustice” e “malheur”, sono affermate e stanno saldamente al centro della sua antropologia filosofica, ma rimangono elementi di una fenomenologia del comportamento umano, individuale e collettivo, che non si apre alla possibilità di un principio esplicativo e non dischiude alcun orizzonte di comprensione ulteriore rispetto al piano della storia, quell’orizzonte di comprensione che in un’ottica cristiana viene offerto attraverso il rinvio alla sfera del soprannaturale, cioè della Rivelazione. In questo senso è giusto osservare che, nella filosofia rousseauiana, resta sostanzialmente tutta da risolvere “la grande question métaphysique qui est de savoir pourquoi, aux jeux de Rousseau, l’homme est fragile et de fil en aiguille, impur et méchant”[70]. Il rigetto del dogma del peccato originale, in un autore che resta fondamentalmente cristiano quanto alla sua ispirazione di fondo e alla sua sensibilità complessiva[71], lascia un vuoto che emerge in maniera ancora più evidente proprio in ragione di tale ancoramento alla tradizione; e da qui nascono anche le tensioni che hanno dato luogo, come evidenzia Del Noce, a interpretazioni così profondamente divergenti del pensiero di Rousseau[72].

Ma proprio questo vuoto fa sì che il problema del male si ripresenti, a questo punto, esattamente da quel lato e in quella prospettiva che pongono in crisi sia ogni tentativo di soluzione razionale di esso, sia ogni progetto di ricondurre intellettualisticamente il male nel cono di luce della raison: lo spazio del male è, in una parte almeno del pensiero rousseauiano, lo spazio del mistero[73]. La perversione della libertà -come emerge chiaramente dalle parole del vicario- può essere oggetto di constatazione empirica e si presenta come perversione che insidia costantemente e sistematicamente l’agire umano; ma il principio di tale perversione resta imperscrutabile. Anche relativamente a questo punto sarà Kant ad esplicitare sul piano del rigore filosofico sistematico ciò che in Rousseau si presenta prevalentemente nella forma dell’intuizione asistematica[74]. D’altra parte, in ultima analisi, l’attestazione di questa imperscrutabilità altro non è se non il riconoscimento dell’insondabilità dell’atto radicato nella scelta volontaria, cioè dell’impossibilità di risalire alle spalle di essa per renderne conto con il riferimento a dei motivi che, se considerati in un’ottica deterministica, annullerebbero insieme volontà e responsabilità. In questo punto Rousseau e Kant ritrovano Agostino e ripetono -pur in un contesto speculativo che è diverso da quello agostiniano per il rifiuto di ogni riferimento alla dimensione non tanto della trascendenza quanto del soprannaturale– la sua posizione circa il problema del rapporto tra volontà e peccato[75].

Una brevissima sintesi di quanto rilevato fin qui consente di mettere in evidenza quattro aspetti principali:

-la considerazione del problema del male non sembra rinviare, in Rousseau, solo a cause esterne, storico-sociali, ma obbliga a prendere in considerazione le dinamiche dell’interiorità; si profilano, a questo livello, i tre nuclei tematici della finitezza, della fragilità, della libertà;

-in tale prospettiva il male si presenta non come semplice errore o “strada sbagliata” (Del Noce), ma in tutta la sua radicalità di colpa, nella misura in cui chiama in causa le responsabilità dei singoli soggetti operanti nella storia e nella società[76];

-il riscatto dal male non è, né può essere, operato solo entro la sfera mondana. Tutta la riflessione di Rousseau sul rapporto tra “justice” e “bonheur” e sul destino ultraterreno dell’uomo, svolta nella Professione di fede, perderebbe il suo senso se si ammettesse che l’uomo conclude il proprio compito su questa terra e che in tale sfera è possibile realizzare la salvezza. E’ indicativo il fatto che proprio la riflessione sul problema del male introduca, nella Professione, le considerazioni sull’esistenza nell’al di là, sul suo valore, sul suo significato, su ciò che si può arrivare a pensare di essa nei limiti delle capacità umane[77];

-se il male abita all’interno dell’uomo si apre non solo un ulteriore, possibile, solco tra Rousseau e le “religioni secolari” sfociate nel totalitarismo, ma anche la possibilità di recuperarlo, in generale, in una prospettiva che consenta, a partire dal mistero del male, di porre ancora le domande radicali su di esso. Non c’è dubbio che Rousseau possa essere letto utilizzando la categoria del “pelagianismo”, ma è forse maggiormente proficuo cercare di interpretare la sua antropologia filosofica come un significativo nucleo di condensazione di alcuni dilemmi tipici del soggetto morale quale viene configurandosi nel contesto storico e speculativo della modernità. Ritroviamo nel filosofo ginevrino, per esempio, la tensione tra mondo naturale e mondo storico; il tema della libertà, intesa come condizione di un’autonomia l’esercizio della quale fa però contemporaneamente scoprire ed esperire la fragilità dell’essere umano; l’interrogativo sul mistero del male, non più illuminato dalla Rivelazione ma ancora avvertito in tutta la sua tragica pregnanza e urgenza. In rapporto ad ognuno di questi punti è evidente come e quanto Kant abbia ripreso e sviluppato Rousseau.

Dal silenzio di un universo di cui -come insegna il vicario savoiardo- Dio rimane solo impersonale ordinatore può nascere sia il progressivo allontanamento dalla dimensione della trascendenza, dopo quello dal soprannaturale, (ed è il cammino percorso dall’ateismo successivo a Rousseau), sia un possibile riavvicinamento all’atteggiamento consistente nell’ascolto attento delle possibili voci e dei possibili echi che da questo silenzio possono farsi avvertire a chi intenda porgere orecchio: non si può certo negare che l’autore dell’Emilio non abbia mai cessato di interrogarsi sul significato di questo mistero e che non abbia esaurito nella spiegazione razionalistica dell’origine del male tutte le possibilità di risposta. Proprio nell’eccedenza di almeno una parte del suo pensiero rispetto all’interpretazione in chiave storico-mondana del male sta quello che si potrebbe definire il residuo pascaliano che ha continuato ad influenzare costantemente la sua riflessione.

Due ulteriori osservazioni possono essere conclusivamente suggerite. Innanzitutto, se è condivisibile quanto fin qui accennato a proposito dell’antropologia filosofica rousseauiana, ciò implica che nella “religione naturale” del filosofo ginevrino il residuo cristiano è più consistente di quanto sembra pensare Del Noce e coinvolge in profondità la posizione sul problema del male, schiudendo possibilità interpretative che obbligano, come si è già accennato, a rivedere la tesi della bontà naturale e del carattere esterno del male, non problematizzate nella esegesi delnociana. Viene da ciò coinvolto -ed è il secondo punto- il rapporto di Rousseau con il messianismo politico successivo. Nella misura in cui l’antropologia filosofica del pensatore ginevrino può essere letta come un’antropologia del limite, nel senso che si è cercato di chiarire, ne deriva che essa costituisce il fondamento -non certo del tutto privo di ambivalenze e anche di antinomie- di una democrazia che, proprio perché intende basarsi sull’accettazione disincantata degli “uomini come sono”, non può sfociare nel totalitarismo, non solo per la priorità dell’elemento religioso nel senso evidenziato da Del Noce, ma anche in ragione del rifiuto della visione perfettistica dell’essere umano che la caratterizza; quest’ultimo aspetto fuoriesce totalmente dall’ottica delnociana, anche se credo sia essenziale per cogliere un lato essenziale della antropologia filosofica e della filosofia politica di Rousseau[78].

Roberto Gatti


[1] Il problema dell’ateismo, Introduzione di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 19904, pp. 361-362.
[2] Ivi, p.362.
[3] Ivi, pp.362-363.
[4] Ivi, p.364.
[5] Nature et histoire dans la pensée de Jean-Jacques Rousseau, “Annales de la Société J.J.Rousseau”, 33 (1955); ora in Filosofia a religione in Jean-Jacques Rousseau, tr.it. a cura di M. Garin, Roma-Bari 1977, pp.50.
[6] Come leggere i classici della filosofia politica. I: Rousseau. Lezioni dell’a.a. 1978-’79, raccolte e trascritte a cura di S. Azzaro (testo dattiloscritto).
[7] Ivi, p.12.
[8] Ivi, p.66.
[9] Cfr.Discours sur l’inégalité, in Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin-M. Raymond, Gallimard, Paris 1964-69, v. III, p. 122.
[10] Come leggere i classici…, cit., p. 56.
[11] Il problema dell’ateismo, cit., p.363.
[12] Come leggere i classici…, cit., pp.53-54.
[13] Ivi, p.54.
[14] Ivi, p.57.
[15] Ivi, p.4.
[16] Ivi, p.44.
[17] Ivi, pp.52-53.
[18] Ivi, p. 57.
[19] Ivi.
[20] Per questa espressione cfr. Manuscrit de Genève, in Oeuvres complètes, cit., v.III, p.289.
[21] Du contract social; ou Principes du droit politique, in Oeuvres complètes, cit., v.III, p.468.
[22] Come leggere i classici…, cit. p.9.
[23] Ivi, p.11.
[24] Ivi, p.57.
[25] Ivi, p.58.
[26] Ivi.
[27] Ivi, pp.58-59.
[28] Cfr. J.Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, tr.it. di M.L. Izzo Agnetti, Il Mulino, Bologna 1967, pp.57-72.
[29] Come leggere i classici…, cit., p.59.
[30] Cfr. B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza, Bari 1909; Etica e politica, Laterza, Bari 19737, pp.209-212.
[31] Come leggere i classici…, cit., p.4.
[32] Cfr. Economie politique, in Oeuvres complètes, cit.,  v.III, pp.253-262.
[33] Come leggere i classici…, cit., p.64.
[34] Cfr. Oeuvres complètes, cit., v.III, pp.591-600. Cfr. anche Confessions, ivi, v.I, l.IX, p.422.
[35] Jugement sur le projet de paix perpetuelle, cit., p.594; Confessions, cit., pp. 423-424.
[36] Come leggere i classici…, cit., p.65.
[37] Ivi, p. 67.
[38] Cfr. Du contrat social, cit., p.468.
[39] Come leggere i classici…, cit., p.67.
[40] Ivi.
[41] Ivi, p.68.
[42] Il termine era già stato introdotto da Sergio Cotta (Teoria religiosa e teoria politica in Rousseau, “Giornale di metafisica”, 19 [1964],1).
[43] Come leggere i classici…, cit., p.70.
[44] Ivi, pp. 70-71.
[45] Ivi, p.71.
[46] Il problema dell’ateismo, cit., pp.364-365, n..
[47]  Introduzione a G. Lequier, Opere, Zanichelli, Bologna 1968, p. 62.
[48] “Le principe fondamental de toute morale, sur lequel j’ai raisonné dans tous mes Ecrits […], est que l’homme est un être naturellement bon, aimant la justice et l’ordre; qu’il n’y a point de perversité originelle dans le coeur humain, et que les premiers mouvemens de la nature sont toujours droits” (Oeuvres complètes, cit., v. I, pp. 935-936)
[49] Preface d’une seconde lettre à Bordes, in Oeuvres complètes, cit., v.III, p.105.
[50] Per un’enunciazione emblematica di tale posizione cfr. la nota IX del Discorso sulla disuguaglianza (in Oeuvres complètes, cit., v. III, pp.202-208). Pur muovendo da diverse prospettive interpretative, accettano e cercano di accreditare questa tesi, com’è noto, autori quali  E.Cassirer (Il problema Jean-Jacques Rousseau, tr.it.,La Nuova Italia, Firenze 1948, poi più volte ristampato); J.Starobinski (La trasparenza e l’ostacolo, tr.it., Il Mulino, Bologna 1982); H. Gouhier (Filosofia e religione in Jean-Jacques Rousseau, tr.it., Laterza, Roma-Bari 1977); J. Talmon (Le origini della democrazia totalitaria, cit.); per un’efficace rielaborazione di tale esegesi cfr. C. Vasale, La secolarizzazione della teodicea. Storia e politica in J.J. Rousseau, Abete, Roma 1978.
[51] Cfr. P.L.Masson La réligion de Jean-Jacques Rousseau, Slatkine, Genéve 1970 (si tratta della ristampa dell’edizione del 1916), II Parte, pp.113-115: “Rousseau, qui semblera nier le péché originel, a une imagination trop chrétienne, trop familiarisée avec l’idée de la corruption de la nature, pour se pouvoir se répresenter la vie de l’âme autrement que sous la forme d’un combat, et la mort sinon comme une délivrance. Et au moment même où le Vicaire nous assure que ‘l’homme sera toujours bon sans peine’, il vient d’affirmer, en prêtre chrétien, que la vie présente n’est qu’un ‘état d’abaissement'” (p.115). Cfr. anche 273-275. Nell’edizione critica della Professione di fededel vicario savoiardo (Ed. Librairie Universitaire et Librairie Hachette, Fribourg-Paris, 1914, pp.165ss) Masson osserva che c’è, nell’antropologia del vicario, “une survivance, plus ou moins inconsciente, du dogme du péché originel” (p.169).
[52] Emile, in Oeuvres complètes, cit., v. IV, p. 583.
[53] Ivi, p.586.
[54] Ivi, pp.603-604.
[55] Lettre à C. de Beaumont, in Oeuvres complètes, cit., v. IV, p.936.
[56] Alcuni rinvii, che intendono valere ovviamente solo a titolo di esempio: La nouvelle Héloise,in Oeuvres complètes, cit., v. II, pp. 243 e 595; lettera a Voltaire del 18 agosto 1756, ivi, v. IV,p. 1060. Ricordo il passo della  Nuova Eloisa e quello della lettera a Voltaire: “Wolmar -afferma Saint-Preux- se contentoit de l’aveu qu’il falut bien faire que, peu ou beaucoup, enfin le mal existe; et de cette seule existence il déduisoit défaut de puissance, d’intelligence ou de bonté dans la premiere cause. Moi de mon côté je tâchois de montrer l’origine du mal physique dans la nature de la matiere, et  du mal moral dans la liberté de l’homme. Je lui soûtenois que Dieu pouvoit tout faire, hors de créer d’autres substances aussi parfaites que la sienne et qui ne laissassent aucune prise au mal”. Nella lettera a Voltaire il sintetico resoconto  della teodicea di Pope e di Leibniz contiene il riferimento al male metafisico nell’accezione adottata da Saint-Preux: “‘Homme, prends patience,’ me disent Pope et Leibnitz. ‘Tes maux sont un effet nécessaire de ta nature, et de la constitution de cet univers. L’Etre éternel et bienfaisant qui te gouverne eût voulu t’en garantir. De toutes les economies possibles, il a choisi celle qui réunissoit le moins de mal et le plus de bien, ou (pour dire la même chose encore plus cruement, s’il le faut) s’il n’a pas mieux fait, c’est qu’il ne pouvoit mieux faire”. Com’è stato notato, Rousseau riprende, quasi alla lettera, specie ne La nuova Eloisa, la formulazione del problema del male quale si ritrova nella teodicea leibniziana (“Il male può essere inteso in senso metafisico, fisico e morale. Il male metafisico consiste nella semplice imperfezione, il male fisico nel dolore, il male morale nel peccato” [Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, a cura di D.O.Bianca, UTET, Torino 1967, v. I, p. 471 (I, 21)]. Ancora nella lettera a Voltaire, a proposito del problema della Provvidenza, Rousseau rileva che, per trattarne correttamente, “les choses devroient être considerées relativement dans l’ordre physique, et absolument dans l’ordre moral: de sorte que la plus grande idée que je puis me faire de la Providence, est que chaque être materiel soit disposé le mieux qu’il est possible par rapport au tout, et chaque être intelligent et sensible le mieux qu’il est possible par rapport à lui-même” (pp.1069-1060). Il “miglior modo possibile” non esclude -anzi, nell’economia di una teodicea di ispirazione leibniziana, implica- l’imperfezione della creatura, imperfezione che fa parte dell’essenza della creatura stessa e non è quindi opera di Dio.
[57] In Rousseau come in Leibniz “la limitazione o negazione essenziale tipica di ogni creatura […] è l’origine del male […], senza che ciò escluda la volontà” (G. Grua, Jurisprudence universelle et théodicée selon Leibniz, Presses Universitaires de France, Paris 1953, p.367).
[58] Lettre à Beaumont, cit., pp.936 e 955-956.
[59] Cfr. Emile, cit., p. 603.
[60] Cfr., per esempio, Confessions, cit., p. 277; Dialogues, in Oeuvres complètes, cit., vol. I, pp. 669-671; 774; 823-825; 855; 863-865; Rêveries du promeneur solitaire, ivi, pp. 1051-1054; 1059.
[61] Cfr. Emile, cit., pp. 586-588.
[62] Su questo punto concordano, pur partendo da presupposti interpretativi profondamente divergenti, R. Derathé, Le rationalisme de J.-J. Rousseau, PUF, Paris 1948, p. 120 e A. Philonenko, Jean-Jacques Rousseau et la pensée du malheur, Vrin, Paris 1984, 3 v.
[63] Confessions, cit., p. 435. “Nul n’est perfait ici bas” (ivi, p. 562). “N’allons pas chercher des perfections hors de la nature” (ivi,p. 594).
[64] Cfr. Lettre à C. de Beaumont, cit., pp. 938-940.
[65] La “fragilità”, come è noto, costituisce il primo “grado” della “tendenza al male” e denota “la debolezza del cuore umano, impotente a seguire nella pratica le massime buone che ha adottato in maniera generale” (La religione nei limiti della semplice ragione, tr.it., in Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia Milano 19924, p.85).
[66] Di Agostino mi limito ad indicare uno dei punti più emblematici a questo proposito nel De libero arbitrio, 3, 17, 47-49.
[67] Lettera a Malesherbes, 5 marzo 1759, in Correspondance généralede J.-J. Rousseau, par T. Dufour-P.-P. Plan,Colin, Paris 1924-1934, v. VI, p. 96.
[68] Sul concetto di “ordine” cfr., per esempio, la Professione di fede del vicario savoiardo, in Emile, cit., pp. 578-582. Cfr. inoltre pp. 308; 466.
[69] Ciò contrariamente a quanto sostiene P. Burgelin, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, PUF, Paris 1952, p.472.
[70] A. Philonenko, Jean-Jacques Rousseau et la pensée du malheur, Vrin, Paris 1984, v. III, p. 179.
[71] Quanto alla questione del male e delle sue conseguenze, è particolarmente indicativa la notissima narrazione, contenuta nel Libro sesto delle Confessioni, del terrore che attanagliava il giovane Jean-Jacques quando pensava alla sua possibile dannazione: “Au milieu de mes études et d’une vie innocente autant qu’on la puisse mener, et malgré tout ce qu’on m’avoit pu dire, la peur de l’enfer m’agitoit encore souvent. Je me demandois: en quel état suis-je? Si je mourois à l’instant-même, serois-je danné? Selon mes Jansenistes la chose étoit indubitable; mais selon ma conscience il me paroissoit que non. Toujours craintif, en flotant dans cette cruelle incertitude j’avois recours pour en sortir aux expédiens les plus risibles, et pour lesquels je ferois volontiers enfermer un homme si je lui en voyois faire autant. Un jour revant à se triste sujet je m’exerceois machinalement à lancer des pierres contre les troncs des arbres, et cela avec mon addresse ordinaires, c’est à dire, sans presque en toucher aucun. Tout au milieu de ce bel éxercice, je m’avisai de m’en faire une espécie de pronostic pou calmer mon inquiétude. Je me dis, je m’en vais jeter cette pierre contre l’arbre qui est vis à vis de moi. Si je le touche, signe de salut; si je le manque, signe de damnation. Tout en disant ainsi je jette ma pierre d’une main tremblante et avec un horrible battement de coeur, mais si heureusement qu’elle va frapper au beau milieu de l’arbre; ce qui véritablement n’étoit pas difficile; car j’avois eu soin de le choisir fort gros et fort près”(cit., p. 243).
[72] Se si accentua il tema della possibilità di auto-redenzione dell’uomo, è aperta la via verso il “pensiero rivoluzionario” che sfocerà nel totalitarismo; se si enfatizza invece la componente cristiana del pensiero di Rousseau e la sua accesa polemica contro l’ateismo philosophique, è possibile tracciare una linea di continuità tra il filosofo ginevrino e lo spiritualismo francese di uno Chateaubriand, di un Main de Biran e di un Lequier (cfr. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., pp.361-366; 254).
[73] W. Cuendet, La philosophie religeuse de Jean-Jacques Rousseau, A. Julien, Genève 1913, p. 229; A. Ravier, L’education de l’homme nouveau, Ed. Spes, Issoudun 1941, pp. 501-502; R. Payot, Jean-Jacques Rousseau ou la Gnose tronquée, Presses Universitaire de France, Grenoble 1978, pp. 70-72; A. Philonenko, Jean-Jacques Rousseau…cit., v. III, pp. 179; 228-230; 241.
[74] Cfr. La religione nei limiti della semplice ragione, cit., pp.95-97.
[75] Al suo interlocutore Evodio Agostino fa osservare: “Il volere è causa del peccato, ma tu cerchi la causa del volere stesso. Ora se io potrò trovarla, cercherai anche la causa di quella causa che è stata trovata? E quale limite vi sarà al ricercare, quale termine nel discutere col dialogo, quando è necessario che non ricerchi al di là della radice […]. Ma se tu ti metti a cercare la causa di questa radice, essa non sarebbe la radice di tutti i mali. Sarebbe invece quella che ne è causa. E se la trovassi, dovresti […] cercare ulteriormente la causa di questa seconda e non avresti un limite alla ricerca […]. Ma in definitiva quale potrà essere la causa della volontà anteriormente alla volontà? O è la stessa volontà, e non ci si allontana da questa radice della volontà; ovvero non è volontà, e allora non ha alcun peccato. Quindi o è la volontà stessa la prima causa del peccato, ovvero la prima causa del peccato non è peccato. Ora non si può ragionevolmente imputare a qualcuno un peccato, se non pecca. Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole. Ma non capisco perché vorresti ricercare ancora” (De libero arbitrio, in Opere, parte I, v. III/2, pp.343-345). Per quanto riguarda Kant, basta ricordare la Religione nei limiti della semplice ragione, IV: “Ogni cattiva azione, quando se ne cerca l’origine razionale, deve essere considerata come un fallo in cui l’uomo è incorso da uno stato immediatamente precedente di innocenza. Infatti, qualunque sia stata la sua condotta anteriore, e quali che siano, inoltre, le cause naturali che influiscono su di lui, sia che si trovino in lui, sia fuori di lui, tuttavia la sua azione è libera e non è determinata da nessuna di tali cause e quindi può e deve essere sempre giudicata come un uso originario del suo libero arbitrio […]. Su questo punto la nostra dottrina è pienamente d’accordo col metodo di cui si serve la Scrittura per rappresentarci l’origine del male come un inizio del male nella specie umana, giacché essa ce lo rappresenta in un racconto, nel quale ciò che dal punto di vista della cosa […] deve essere pensato come razionalmente primo, appare primo dal punto di vista del tempo […]. Ma l’origine razionale di tale perturbamento del nostro libero arbitrio […] rimane per noi impenetrabile […]. Il male non è potuto derivare se non da ciò che è moralmente cattivo, non dai semplici limiti della nostra natura […]. Questa incomprensibilità, insieme con la più precisa determinazione della malignità della specie umana, è quella che la Scrittura esprime in quel racconto storico in cui essa pone, bensì, il male all’inizio del mondo, non già però nell’uomo, ma in uno spirito d’una destinazione originariamente più elevata: e, quindi, il primo inizio di ogni male in generale è da essa rappresentato come per noi incomprensibile (perché, donde proviene il male in quello spirito?)” (pp. 94-97).
[76] Cfr. Emile, cit., pp. 586-588.
[77] Cfr. Emile, cit., pp. 583 ss.
[78] Il problema non è dunque tanto, in questa sede, di chiedersi se l’apparato categoriale offerto da Rousseau possa essere, per così dire, utilizzato ancora come risposta possibile agli esiti totalitari del moderno (ciò che Del Noce contesta con riferimento, per esempio, allo spiritualismo francese); consiste piuttosto nel tentativo di suggerire -riguardo agli aspetti segnalati- la possibilità di una diversa collocazione del pensiero rousseauiano nella vicenda, culturale e politica, del razionalismo moderno. Si tratta di misurarsi cioè con una questione di esegesi filosofica, rimanendo sullo sfondo l’insieme delle implicazioni in senso lato ideologico-politiche che da essa possono nascere e che non sono oggetto di questo contributo. In tale prospettiva l’obiettivo di quanto fin qui osservato, pur in estrema sintesi, è di cercare di portare elementi utili alla considerazione dei “rapporti di Rousseau […] con la ‘modernità’, che come ‘idea di modernità’ ha preso figura critica nelle analisi di Voegelin e Del Noce”, secondo l’invito -mi pare in larga parte disatteso- che, con molta pertinenza, veniva rivolto, ormai vari anni fa, agli studiosi del filosofo francese in un articolo dedicato allla lettura maritainiana dell’autore del Contratto sociale (F. Mercadante, Rousseau e Maritain: un passo falso dell’ortodossia, “Rivista rosminiana” [1978], 4, pp.416-431).

 

 

On-line il nuovo numero di “Cosmopolis” (2.2014)
Cosmopolis 2.2014

SOMMARIO
Editoriale di Roberto Gatti

“Sul tempo”
1.I tempi della quotidianità
– Marianna Esposito, “Carpe diem”: i tempi felici e infelici della vita
– Carla Danani, Un tempo senza tempo: l’esperienza del dolore
– Giuseppina Gualtieri, Sull’amore: la passione di un attimo e la fedeltà di una vita
– Giovanni Grandi, L’amicizia, relazione duratura nel tempo
– Davide Sisto, La sanzione di ogni narrare: sulla morte
– Chiara De Santis, Il tempo dell’apprendere: pedagogia e vita
– Marco Milella, Ricordarsi del futuro: l’educazione all’intergenerazionalità
– Andrea Aguti, Perdono e tempo

2. Tempo, storia e politica
– Michela Marzano, Tempo e relazione: sulla fiducia come legame sociale
– Gianfranco Borrelli, Politica e previsione all’epoca della mondializzazione
– Ermanno Vitale, Democrazia. In memoriam
– Roberto Gatti, Dimore provvisorie: il tempo sospeso dei migranti
– Nico De Federicis, Politica e tradizione
– Marco Bruni, Il tempo e la storia nell’epoca del frammento
– Romina Perni, Un tempo per l’utopia
– Nicoletta Stradaioli, Tempo ed escatologie nel ‘900: Eric Voegelin
– Marco Bastianelli, Al tempo di Internet. Temporalità e logica della rete

3. Rappresentazioni del tempo
– Giulio Maria Chiodi, Approssimazioni al tempo simbolico
– Jean-Pierre Thiercelin, Le Temps représenté: le Théâtre et la Mémoire
–  Pierangelo Sequeri, Un sublime pre-testo. Redenzione del significante e logos della musica

“Capire i conflitti, praticare la pace. L’esperienza di ‘Rondine’: il Nagorno Karabakh”
– Stefano Marinelli, Il Nagorno Karabakh e il conflitto tra Armenia e Azerbaijan
– Maria Karapetyan, Dissonanze, Accordi e Pace. Piccole Persone, Grande Politica
– Orkhan Nabiyev, Un nuovo Illuminismo per costruire la pace